ANIME
SOSPESE
dedicato a giusta e Caterina Conjus ,
di Cabras, assassinate dall'inquisizione
(Giuseppe di Biasi)
Anno Domini 1.526,
Cabras.
Dalla piccola finestrella col doppio potallitu, cinta
tra i caldi mattoni di ladrini del poderoso muro, filtrava, nella grande cucina campidanese, la
dorata luce dell’alba.
Era quella l’ora
prediletta da Giusta Conjus.
Apriva gli occhi
ancor prima che il sole annunziasse il nuovo giorno perché era punto di
principio, per lei, esser desta e aver già tutto pronto quando il lieto evento
della rinascita quotidiana di Majistu fosse avvenuto.
Svelta, adempiuto
alle abluzioni mattutine e indossate comode vesti, attraversava il selciato del
grande cortile e provvedeva a riempire i crogiuoli d’acqua e cibo per Cuaddu,
Boi, Bacca, Pròcus e Puddas, i suoi amati animali. Li chiamava così, ostentando
il nome proprio, perché li considerava suoi pari. Grazie a loro aveva potuto
condurre una vita più che agiata, anche quando il suo amato consorte era
dipartito all’altro mondo, lasciandola sola e povera con la figlioletta
Caterina, appena nata.
Nonostante l’immane
sofferenza per la gravissima perdita, Giusta non si era persa d’animo. Con determinazione
e lodevole ingegno aveva preso in mano le redini de sa siènda, coltivando a
nuovo i terreni che le erano toccati in eredità dalla morte di sua madre e
riuscendo, in pochi anni, a potersi permettere uomini e donne a dipendenza.
Tutti, nel paese,
avevano ammirato la sua straordinaria forza d’animo e capacità.
Era stata davvero in
gamba Giusta.
Ed era bellissima,
pure.
Molti avevano
provato a corteggiarla e qualcuno più audace l’aveva anche chiesta in sposa, ma
Giusta non ne voleva sapere: restava innamorata e fedele al suo diletto marito defunto,
pensando solo a lavorare sodo e a crescere la sua adorata bambina.
Caterina aveva
appena dieci anni quando Giusta, che in campagna ci andava, ormai, solo per
vedere il progresso del grano, dei meloni a crudo e delle viti, decise di
metter su bottega. Aveva sempre sognato di dedicarsi al commercio e ora poteva
facilmente esaudire questo desiderio, cominciando col vendere i prodotti della
sua campagna e dei suoi animali: farina, meloni, uva, vino, latte, formaggi,
uova …
Il commercio divenne
molto florido e ben presto si arricchì dei derivati della filiera.
Giusta, aiutata da
due delle sue braccianti, cominciò a confezionare pane e dolci.
Ogni anno, per i
riti pasquali, is arrùgas de Crabas si
animavano col traffico di innumerevoli carrètas de arrìcus che giungevano da ogni dove per comperare, da
Giusta e Caterina, merci e prendas.
Ogni prelibatezza
era esposta in bella mostra, da un lato, me in s’intràda de sa buttega,
lasciando spazio, nell’altro lato d’ingresso, a un bancale ove campeggiavano i
tessuti più pregiati, muncadoris tanàus dipinti a mano, artigianato e gioielli.
Alla vendita di questi era stata impiegata Caterina che, nel frattempo, diventata
una intraprendente giovinetta, mostrava un particolare interesse verso le
manifatture, riuscendo a crearne di proprie con abilità non comune alla sua
età.
Giusta l’aveva
cresciuta educandola a saper fare di tutto, ché nella vita non si sa mai.
Caterina, tuttavia,
già dotata di suo, fin da piccola si era distinta nel confezionamento di
monili, apprendendo l’arte da Tzia Annika, una vicina di casa che aveva ereditato
dalla nonna le tecniche per la lavorazione dei metalli, delle pietre e dei
coralli. In ogni momento libero della giornata, la fanciulla s’infilava nel
cortile della vecchia donna e, non vista, spiava ogni suo movimento dall’anta
semiaperta della fucina. Annika si era accorta da molto tempo d’esser spiata,
ma non l’aveva mai dato a vedere. Saggiamente, percependo la passione della
ragazzina, aveva lasciato che lei guardasse di nascosto, facendo in modo che la
sua curiosità levitasse.
Aveva sempre pensato
di dover iniziare un’erede alla sua arte e passare il testimone.
Non aveva avuto figlie
dunque comprese che quella bambina le era stata mandata dalla Madre e attendeva
il tempo giusto, quando fosse stata abbastanza motivata all’apprendimento dei
misteri, per tramandarle la majhia.
Sommamente
concentrata nella sua opera, ella perdeva il tempo e lo spazio, dedicandosi
anima e corpo a creare modellini di cera sui quali plasmava uno stampo in
argilla, poi, praticati due fori, uno in alto e uno in basso, scaldava la cera
che fuoriusciva in bollente rivolo, riempiendo, infine, lo stampo vuoto, del
metallo che teneva pronto in fusione. Caterina quasi non respirava nemmeno
quando, una volta raffreddato il metallo, la donna spaccava l’argilla estraendo
oggetti lucenti, non ancora perfetti e che limava energicamente, ma con
delicatezza, fino a smussare ogni imperfezione.
-
“Stupàndi de
inguni! – Esci da lì!” – le ordinò un giorno Annika, senza alcun preavviso.
Caterina sobbalzò,
ma comprese che la vecchia sapeva da sempre che lei era lì ad osservarla di
nascosto.
Come fosse stata la
cosa più naturale del mondo, la ragazzina era balzata fuori dal nascondiglio e,
da quel giorno, senza dire una parola, sedette al banco di lavoro
dell’alchimista diventando sua fedele e devota aiutante.
La sua vera passione, tuttavia, non era tanto
fondere quanto scolpire.
Annika restò senza
parole quando Caterina, col candore tipico della pubertà, le aveva confidato di
sapere chi abitasse in ogni pietra.
- “E chi ci abita?”
– le chiese.
- “Gente!” – aveva
risposto, ermetica. Intendendo per “gente” qualsiasi forma vivente: dagli
insetti, ai fiori, agli animali, alle persone.
Dopo un attimo di
silenzio aveva aggiunto: “Fuèddant! - Parlano!” – sapendo che non doveva
aggiungere altro per essere capita da Annika che, infatti, aveva annuito con
fare complice.
- “Bessèndi fùnt!” –
esclamava la gente del paese, con evidente punta di malizia, al passare della
vecchia e della bambina quando si incamminavano verso le rive dello Stagno a
raccogliere sassi. Le canzonavano, perfino, mentre, dopo ore in riva col sedere
per aria, rientravano coi grembiuli pesanti, pieni di pietre grandi e piccole,
che portavano come avessero il più grande dei tesori.
-“Alliày osàtrus …
Arragollèndi preda! Arratza ‘e makìmini!”.
Annika e Caterina,
incedendo fieramente, attraversavano arrùgas y arrughìtas, non curandosi
minimamente di chiacchiere e malevoli commenti.
Una volta arrivate
al laboratorio, depositavano le pietre trattandole come fossero animas antigas,
delicatamente, con la consapevolezza della creatura in esse contenuta e che Caterina
avrebbe aiutato ad uscire. Quando la fanciulla cominciò a esporre i suoi lavori
nel negozio della madre, i maldicenti dovettero tapparsi la bocca: accanto
ai pregevoli manufatti di Annika, che
variavano in tutti i settori dell’utensileria domestica e rituale spiccavano, e
cominciarono a catturare l’attenzione di tutti gli avventori, le incredibili
figurine in pietra di Caterina.
Dal creativo banco,
occhi, braccia e slanciati corpi si protendevano come in magica danza. La
pietra aveva perso ogni pretesa d’esser inanimata e voleva parlare.
Non un’anima viva poteva
restare insensibile innanzi alle statuine litiche, e dal restare ammaliati
all’acquisto, il passo era breve.
Per quanto era
riuscita benedetta dalla fortuna, sa buttega venne intitolata alla Madre.
Annika riprese a fondere bronzo secondo gli antichi dettami e, poiché da cosa
nasce cosa, ed è incredibile quel che donne messe insieme riescono a fare,
Giusta decise di adibire un intero spazio all’esposizione dei bronzi di Annika
e i sassi di Cate.
La voce si era
sparsa in tutta l’Isola: gente che veniva a comprare e venditori che portavano
a vendere le opere di Annika e Cate, non ne mancavano mai. Era rara la casa
dove non apparissero, appesa in ingresso a benedire una Dea Madre di Annika o
una scultura di Caterina, al centro della cassa.
Giusta, temendo il
malocchio per l’aumentata ricchezza, provvedeva a fare beneficenza,
distribuendo pane e dolci ai poveri del paese.
La serpe
dell’invidia, si sa, è una brutta bestia che si placa solo quando l’invidiato
cade in disgrazia, ché di questa essa si
nutre e si sazia. Ma la grazia, presso la casa di Giusta, aveva sostituito la
disgrazia già da qualche anno, dunque non era ragionevole ritenere che fosse
possibile tenere il mostro a bada a lungo.
Lei ne era consapevole
e, con grande fede, concentrava le sue energie nelle continue opere di bene,
affinché le malefiche forze potessero essere, quantomeno, sedate e pregava la
Madre affinché assistesse lei e Caterina, ormai giovane donna anche lei, in
ogni giorno della vita.
Sinis, anno mater 594. MAGGIO.
Pippìa de Angùya - Realizzazione con lievito madre su infiorata di Graziella Pinna Arconte |
Adèla era felice.
Era stata prescelta,
dalle Sagge, per gli addobbi dei riti della fioritura.
Lei e altre dodici
giovinette si erano occupate della raccolta dei petali e delle aromatiche. Li
avevano stesi al sole in ampi teli, riempiendo l’aria di inebrianti aromi di
rosa selvatica e mentuccia. Una volta pronti, tutti i petali erano stati
raccolti nei canestri e lei insieme alle altre prescelte li avevano sparsi per le
vie.
Non vi era abitazione,
a Tharros, dove non fossero stati appesi alle finestre colorati stendardi e per
le strade, già addobbate da tappeti di straordinaria fattura, si levava alto il
profumo della mistura floreale stesa sul selciato.
Lieta, la musica
delle launeddas levava al cielo una dolcissima melodia, chiamando il popolo
alla processione. Dalle case uomini e donne uscivano in un moto gioioso, scendendo
per i viali come acqua che scorre sul letto del suo ruscello, accorrendo al
richiamo irresistibile dei suoni e dei
profumi.
La festa dei nove giorni
di Lunistizio era cominciata, per rendere omaggio alla Dea che avrebbe
benedetto i suoi figli prediletti e iniziato le giovani prescelte alla cura dei
Sacri Elementi.
Regola e Armonia
regnavano indisturbate e Adèla, principalmente, gioiva di questo, grata alla
Madre d’esser nata presso le Sue contrade, in una natura paradisiaca tra Cielo,
Mare e una Terra generosa e prodiga di frutti.
Per nove giorni,
dimentichi di lavoro e fatica, tutti i cittadini della prosperosa città si
abbandonarono ai ritmi delle gioconde celebrazioni, fino alla notte del nono
giorno quando, sotto l’egida di Nanna Seléne e la sua piena luce, le giovani
vennero a Essa consacrate.
Quando, con grande
solennità, la Saggia Sinispella ebbe recitato la liturgia rituale, il collo di
ogni fanciulla venne cinto da una catena d’oro con appeso uno scarabeo in
diaspro verde estratto dal cuore del
Monti Arci.
Gli scarabei, di
preziosissima fattura, erano stati realizzati da Lenàrda in persona, la più esperta
orafa della città. Con grande perizia essa aveva inciso dietro ciascuno di essi
la formula magica del cuore e della mente, dopodiché i meravigliosi monili
erano stati imbrebàus dalla potente Jana Lisandra, Majista de Iskola e
Meyghina, che presiedeva il rito con le altre Sagge al governo della città.
I cerimoniali erano stati
chiusi felicemente. Tutto era stato fatto bene.
Tutto era andato per
il meglio!
La gente era tornata
felice alla propria dimora, sicura che sarebbe stato, anche quello, un altro
anno benedetto dalla Madre.
Come sempre nei
secoli dei secoli.
Adèla e le sue
amiche volavano sul selciato. Avevano onorato la Dea nella bianca processione e
gettato su nenniri a mare per la rigenerazione.
Da quel momento, ogni
giorno, avrebbero officiato i Sacri Riti, con la consapevolezza dell’importante
ruolo che avrebbero rivestito per la salvaguardia della loro comunità,
protette, a loro volta, dai potenti influssi del consacrato scarabeo.
Intanto, gli
innumerevoli ospiti giunti da ogni parte della Sardegna, e ospitati presso gli
ostelli del porto, cominciarono a raccogliere suppellettili e mercanzie di cui
avevano fatto incetta a Tharros in quei giorni. In breve tempo, una lunga
carovana di uomini, donne, bambini e bestie da soma muoveva alla volta delle rispettive
destinazioni.
Molti di essi
avevano profittato di quei giorni per vendere i prodotti tipici del loro
territorio, traendo grande profitto e guadagnando ordini per l’anno successivo.
Si beavano di poter
ancora godere, a Tharros, delle celebrazioni dedicate alla Madre, raccontando
che da loro stava cambiando tutto da quando governava Ospitone il quale si era
convertito al nuovo culto del Dio Cristiano e voleva sottoscrivere un trattato
di pace, su richiesta del Papa Gregorio Magno, con Zabarda, il magister militum
di Fordonjanus. Questi, dicevano, era stato incaricato dall’imperatore Maurizio
di condurre una campagna senza tregua contro i barbaricini che non intendevano
rinunciare al Culto della Dea, fino a completa sottomissione.
Dicevano che nella
pianura, dopo molti anni di una campagna iniziata nel 537, il nuovo culto era
stato già abbracciato e che per paura di Zabarda e dei suoi sgherri, molte
genti avevano ceduto e ora inneggiavano al Dio Padre e non più alla Dea Madre. Dicevano
di stare attenti e che presto sarebbero arrivati anche sulla costa a far cadere
anche gli ultimi presidi di quello che già veniva chiamato “vecchio
culto”. Dicevano che le genti avevano
dovuto subire troppi soprusi e che molti avevano dato la vita per la Sacra
Acqua, il Sacro Fuoco e le Sacre Rocce. Dicevano della terribile fine che era
stata riservata alle Majiste e alle Janas sacerdotesse del Culto. Esse venivano
violate, squartate, uccise e, infine, arse senza degna sepoltura.
Tali racconti, la
cui incredibile eco era giunta a Tharros già da qualche tempo, trovarono
conferma nelle moltissime testimonianze delle centinaia di persone che erano
riuscite a partire da Cornus, da Calmedia e da Nora, nonostante i severi
controlli e i divieti imposti da Zabarda. Gettarono una bruttissima ombra sui
festeggiamenti, apparendo, purtroppo, assolutamente credibili.
Una volta
ripristinata la normalità in città, fu convocato il Grande Consesso e decisa
una strategia di difesa.
Nessuno poteva
immaginare che Gregorio Magno in persona aveva scritto una lettera a Ospitone
congratulandosi per aver egli abbracciato la nuova fede; né, tantomeno, che
Ospitone avesse già preso deprecabili accordi con Zabarda e dunque, costui,
avesse deciso di compiere un’ardita incursione a Tharros per infliggere il
colpo mortale alla Dea.
Nella stessa notte,
dopo il Grande Consesso, mentre la città riposava sotto lo sguardo vigile delle
sentinelle, di guardia presso la Nera Rocca, un manipolo di sgherri riuscì a
penetrare le mura, aprendo la via a centinaia di guerrieri che poterono agire
di sorpresa, facendo strage di cittadini inermi, donne e bambini.
Ripresisi dalla
sorpresa, tuttavia, i guerrieri di Tharros riuscirono a opporre resistenza e la
lotta, in città, durò lunghi giorni.
Il sangue scorreva a
fiumi sul selciato. L’orrore dilagava via per via, casa per casa.
I pochi combattenti
sopravvissuti, uomini e donne parimenti addestrati, lottavano strenuamente e
con grande coraggio, in una contesa impari dove già era evidente chi avrebbe
avuto la meglio.
Ma resistevano!
E resistettero per
giorni e giorni, ottenendo una tregua.
Ma quando la
battaglia riprese fu ancora più cruenta e orrida.
Un manipolo di
parabolani, entrati in città al seguito degli sgherri, profanò la Sacra Porta
dei Culti ove le Sagge e le giovani iniziate si erano ritirate nella solenne
preghiera di invocazione.
Belve umane prive di
ritegno si scagliarono contro le Sacerdotesse che resistettero indomite fino a
definitiva capitolazione.
A loro fu riservata
la peggiore delle sorti. Non una sopravvisse.
Sui loro corpi fu riversata
la peggiore lascivia e quelle bestie lerce e immonde fecero scempio di millenni
di bellezza, violandola, squartandola e bruciandola nei cineroni predisposti
nella pubblica piazza. Da questi emanava un macabro miasma che appestava
l’aria, per i pezzi dei cadaveri che vi venivano bruciati.
Adèla era riuscita a
scappare passando da un cunicolo sotterraneo che, attraversando la città,
arrivava fino alla spiaggia della Laguna. Ma arrivata all’uscita rozze mani
afferrarono le sue delicate spalle di adolescente, strappandola fuori come in
violenta nascita. Comprese che la sua ora era arrivata.
Riuscì a sfilare lo
scarabeo dal collo e affinché non cadesse in mani nemiche, velocemente, riuscì
a nasconderlo sotto la sabbia.
Poi tenne lo sguardo
fisso al cielo e rese la sua dolce anima alla Madre che, rassicurante, la
accolse tra calde braccia.
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Anno Domini
1.526, Cabras.
Il Cosmo intero, in
quel fausto riverbero di Luna, era chiuso nella Sacra Fucina di Annika. Durante
la mattina di quella fausta giornata,
cercando pietre levigate nella spiaggia sulle rive dello Stagno, Caterina notò
qualcosa che brillava tra la sabbia e, incuriosita, scavò col dito sotto i
granelli, portando alla luce un piccolo manufatto in pietra verde ricoperto di
concrezioni calcaree, dunque chissà da quanto tempo era lì sepolto, si disse.
La sua sorpresa, tuttavia, era destinata ad aumentare di gran lunga poiché,
estraendo l’oggetto venne fuori, dappresso, una lunga e bellissima catena
d’oro. Il cuore della fanciulla prese a battere talmente forte che temette
uscisse fuori dal petto. Guardandosi attorno con circospezione, nella speranza
che i soliti pettegoli non la stessero osservando, si accertò di essere
perfettamente sola e corse verso Annika che, nel frattempo, arrivata presso
l’altro lato della spiaggia, era china e assorta nella ricerca delle migliori
pietre. Caterina giunse al suo cospetto silente come leggera brezza e sol per
questo moto, simile a un alito appena accennato, Annika comprese che la ragazza
dovesse comunicarle un segreto, qualcosa di eccezionale che doveva esserle
accaduta nella ricerca. Anche questo, tuttavia, era nelle sue aspettative:
sapeva che, prima o poi, la Madre avrebbe mandato un segnale speciale per la
cerimonia di iniziazione della ragazza.
Quando, però,
Caterina schiuse le dita della mano, svelando ai suoi occhi il tesoro appena
liberato dalla sabbia, Annika trasalì.
Stavolta la Dea
aveva davvero voluto strafare!
Senza dire una sola
parola, le due donne rientrarono a casa, riempiendo i loro grembiuli di la qualsiasi per evitare inutili
pettegolezzi.
Con uno speciale
spazzolino Annika liberò l’oggetto dalle concrezioni.
Ciò che apparve andava ben oltre ogni sua aspettativa! Esclamò
ad alta voce come non le era mai accaduto di fare: “Madre mia!” e, subito dopo,
davanti all’incredula Caterina, pianse calde lacrime e cominciò a pregare.
Al tramonto
Caterina, alla presenza di Giusta commossa testimone, ricevette i doni di
passaggio della majhia dalle mani di
Annika che, al culmine della commozione, cinse il sottile collo della fanciulla
con la più bella tra le collane d’oro con scarabeo, consapevole che altro
importante collo l’aveva indossata tanto tempo addietro.
Lo spirito di Adèla
trovò degna dimora presso Caterina la quale, da quel giorno, mutò atteggiamento,
esibendo uno sguardo profondo e conscio in un portamento fiero e solenne
nell’incedere. Cominciò ad approfondire la conoscenza del diaspro,
acquistandolo dai mercanti dell’isola per realizzare scarabei simili al suo.
A Cabras, si sa, il
culto della Dea non è mai venuto meno nei millenni, dunque in breve tempo non
il collo di una bimba, fanciulla, madre, vecchia, rimase senza scarabeo latore
di fertilità, bellezza, ottemperanza, abbondanza e coraggio.
In tutta l’Isola
Giusta e Caterina avevano, ormai, raggiunto una grande fama.
Chi voleva loro bene
ed era loro grata diceva cose meravigliose delle due donne, imbattibili in
maestria, abilità nel commercio, bellezza e bontà d’animo.
Ma c’era chi voleva
loro molto male, chi crepava d’invidia per i successi della loro intrapresa,
chi proprio non poteva sopportare la loro bellezza e ricchezza.
Queste anime dannate,
ree d’aver confezionato più di una fattura malefica per le due donne, mai
attecchita per intercessione di Annika, continuavano ad agire nell’ombra,
ordendo trame d’ogni genere e fomentando sempre nuovi animi alla diffamazione,
alla calunnia. Malelingue sempre più pervicaci insinuavano infami dubbi nella
testa dei sempliciotti del paese, affinché codesti agissero da cassa di
risonanza del pettegolezzo, alludendo alle non chiare vie che le due donne
avrebbero percorso per accumulare i loro beni. Di bocca in bocca la calunnia
era andata levitando e alle spalle di Giusta e Caterina era in agguato il rombo
di un tuono della menzogna più potente, quella che, passando dall’accusa di
prostituzione era già arrivata alla stregoneria e al patto col demonio. La
prova? L’ostinazione al culto antico della Dea!
Tutto era pronto e
si sentiva nell’aria il sentore della tempesta in arrivo.
Anche Annika l’aveva
sentita, quando, in una notte di incredibile stellata apparve nel cielo un
vortice potente che se la portò via, impedendole di proteggere le sue amiche
per l’ennesima volta.
E fu mentre Caterina
si strappava i capelli per il grande dolore della perdita della sua seconda
madre, al capezzale di Annika che giaceva serena nel suo letto di petali
profumati; mentre Giusta si occupava delle incombenze del funerale, che
sentirono bussare ripetutamente alla porta.
Ciò che di surreale
accadde da quel momento in poi può essere riassunto da un semplice concetto: il
gorgo dell’infamia si abbatté su di loro.
Da Cagliari, a
bussare alla loro porta, era arrivato, su segnalazione di un nutritissimo
numero di cittadini di Cabras, mandato dall’Inquisitore Generale, Tomas de Torquemada,
il Primo Inquisitore, Sancho Marin.
Accusate
sommariamente, a Giusta e Caterina fu solo concesso di seppellire la cara
Annika, secondo il rito del Dio cristiano.
Indi furono
arrestate e, private di qualunque diritto di difesa, vennero processate e,
accusate di superstizione e professione dell’antico culto, vennero penitenziate
e private di tutti i loro beni, ceduti, in salvezza e remissione dei loro
abominevoli peccati, alla Chiesa.
Dissero che fu fatta
salva loro la vita.
Dissero che le due
donne si rifugiarono, cambiando nome, in un paesino dell’interno. Dissero che
non era vero.
Dissero che Giusta e
Caterina erano state impiccate nella spiaggia dello Stagno dove Cate parlava
alle pietre cercando il senso poetico della Vita, con Annika.
Dissero che i corpi erano
stati portati a Cagliari e, po su
scramentu, bruciati nei tredici roghi accesi in piazza contro la
stregoneria.
Dissero che molta
gente di Cabras era andata a vedere e rideva felice, e batteva le mani,
perfino.
Tutti dicevano, nel
bene e nel male, a Cabras, di Giusta e Caterina.
L’inquisitore
intervenne e azzittì le lingue lunghe, minacciando d’arresto coloro che
avessero avuto una sola parola d’amore per ricordare quelle streghe malefiche.
Pretesero l’oblio,
ma non lo ottennero.
Ogni sera, anime
buone con gli occhi bagnati, volgevano il volto alla Madre e pregavano che
avesse accolto tra le sue calde braccia le anime delle amatissime Giusta e
Caterina Conjus.
Dal Sacro Consesso,
con la Dea, Adèla, le Sorelle Sagge, Annika, Giusta e Caterina, si compiacevano
delle loro preghiere.
http://www.storiologia.it/inquisizione/apertura.htm
Cabras, A. D. 2000
Camminava lungo le rive dello Stagno di Cabras, quando
vide qualcosa brillare tra i granelli di sabbia …
Lassù la Dea, Adèla, le Sagge Janas, Annika, Giusta e
Caterina, sorrisero felici.
KLIMT
Graziella Pinna
Arconte